Una sentenza. O forse no dichiara a se stessa Roberta, una donna a cui è stato diagnosticato un carcinoma. Esteso. Aggressivo. Da ‘combattere’.
Forte della dedizione che da sempre nutre per la parola, decide di non fargli la guerra e di dialogare con lui: mentre la chemioterapia entra in lei, lei inizia a scrivere lettere a Fritz, quel figlio, suo figlio, nato e cresciuto nel suo ventre e, come tale, da accogliere e amare.
La forma breve e l'intensità delle parole che l’accompagnano per sei lunghi mesi è una musica che fa male e rigenera, al tempo stesso.
L'esito della PET, dopo il ciclo di cura previsto, è sbalorditivo: non v'è più traccia di alcun tumore.
La resa iniziale, chiave da cui si snoda la narrazione autobiografica nelle nove lettere, danza con una sapiente quanto intelligente ironia, lasciando che l’amore diventi medicina dell’anima.
Il congedo, scardinando ancora una volta tutti i parametri, è la benedizione di chi ha scelto, sin dall’inizio, di non percorrere rotte già battute ma di inoltrarsi nel buio della notte per ritrovarvi la luce primigenia.
Dedicato a chi sta attraversando la malattia, a chi cerca la forza della vita, a chi sceglie di amare.