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Tantra

La meraviglia e la gustazione nel Tantra

A cura di Antonio Sbisà

La meraviglia, la beatitudine. Quali sono i significati che attribuiamo a queste parole? Quale la risonanza emotiva hanno dentro di noi? Ripercorriamo le convinzioni, le nostre idee personali: possono sostenere l’esistenza della meraviglia e della beatitudine? Riteniamo forse che siano condizioni un minimo presenti nella cultura e nella religione, ma lontani da noi, dalle nostre possibilità concrete? Ripensiamo poi al significato presente in questi testi, al senso specifico collegato alla manifestazione del divino. Vogliamo incamminarci verso questi stati?

Tutte queste domande e possibilità, poi, come possiamo applicarle ai nostri rapporti affettivi? Riteniamo che queste pratiche erotiche e questi stati di meraviglia siano qualcosa che siano raggiungibli solo con l’altro, o siamo convinti della nostra autonomia personale, della nostra capacità individuale, libera, di sentire, godere, meravigliarci? Lasciamo la libertà all’altro, di sentire, godere, meravigliarci, anche se, almeno in certi momenti, non siamo noi a collaborare alla sua esperienza? Se siamo in coppia, riteniamo giusto, bello e piacevole, dare molto tempo e spazio alle pratiche erotiche? Se poi il nostro partner raggiunge un’apertura di coscienza, una forma di ebbrezza amorosa e sessuale, con un’altra persona, siamo disposti ad accettarlo? Siamo felici che il divino, presente in te, nel tuo partner, in altri amici del tuo partner, si manifesti attraverso queste aperture di coscienza, anche dove non sei presente tu, apparentemente?

Seguiamo queste risonanze, seguiamo il flusso dalle astrazioni e dagli ideali alla concretezza della vita quotidiana. Dio è in ogni modo qui.

Siamo arrivati ad un punto fondamentale, sia per comprendere Abhinavagupta, commentato qui da Gnoli, sia come punto di riferimento per tutto il nostro corso: il concetto di meraviglia o sorpresa.

“Sia l'esperienza estetica sia quella religiosa implicano la cessazione di un mondo (che è il mondo ordinario della storia, della trasmigrazione) e l'improvviso sostituirsi ad esso di un'altra dimensione del reale. In questo senso esse sono ambedue meraviglia, sorpresa. Lo yogin è tutto «penetrato di meraviglia». Tutto ai suoi sguardi è compatta coscienza, riposo o forza ad un tempo, che rinnova ininterrottamente la realtà, che, irrorata di vita perenne, abbandona, d'istante in istante, le inutili scorie della sua vecchiezza. Come una gustazione meravigliosa è concepita, si è detto, anche l'esperienza estetica. In un senso più ampio, questa meraviglia è presente, anzi, in ogni forma di vita. La mancanza totale di essa coincide coll'inerzìa della materia. La sensibilità estetica (dice Abhinavagupta) «non è altro che una capacità di meravigliarsi» più elevata dell'ordinario. Un cuore opaco non obstupescit. La presenza del bello non suscita in lui commozione o meraviglia alcuna“.

Se prima, rispondendo, abbiamo manifestato delle difficoltà di comprensione o di accettazione, ecco che questo quadro completo ci da un sostegno razionale ed intuitivo formidabile.

Gnoli ricorda un testo di queste scuole, il Mahanayaprakas'a, di autore ignoto, contemporaneo o posteriore ad Abhinavagupta. La tesi fondamentale è che il tempo, la molteplicità ed il dolore del samsara possono essere ‘divorati’ in ‘ogni nostro percepire’. La soppressione di questi stati di sofferenza è facilitata durante le esperienze ‘in cui le potenze, i «raggi», le dee dei sensi sono maggiormente saturati e potenziati, cioè sotto l'influenza di un piacere erotico, di bevande inebrianti o di cibi non vegetariani’.

“Durante queste esperienze, lo yogin deve praticare speciali meditazioni, considerando, per esempio, come in un godimento erotico siano operose, disposte a cerchio o ruota, varie forze o potenze che ne consentono lo sviluppo, la persistenza ed il dissolversi nella coscienza senza nome. Lo stesso procedimento deve applicarsi quando i sensi sono saturati da una bevanda inebriante o da carni“.

L’io, estrapoliamo, il Sé, è libertà e pensiero; ma allora l'io è anche beatitudine. ‘La beatitudine non è altro se non uno stato di indipendenza, di libertà da ogni sollecitazione estrinseca e quindi di riposo, di «lisi» nel proprio stesso sé. I concetti di riposo, di «lisi», di gustazione, di assaggio e di beatitudine sono da questo lato strettamente connessi l'un l'altro.’ Seguiamo Abhinavagupta.

“La beatitudine è detta essere l'illuminazione — illuminazione dotata e pervasa di pensiero — del nostro proprio essere, del nostro proprio sé in tutta la sua pienezza. Prendiamo, per es., il caso di un affamato. Costui riposa in un'iità limitata, individua, non piena, inquinata dalla contrazione del corpo, ecc., il quale è vuoto (di cibo). La mente dell'affamato è, di conseguenza, preda del desiderio di cibo, che è una cosa esterna, da lui separata, e, come tale, il pensiero del sé non può in lui affermarsi in tutta la sua compattezza. Tale la ragione perché sta lì infelice, privo di beatitudine. La beatitudine, abbiamo visto, consiste nel pensiero del sé, e, stando così le cose, quando costui mangia e si riempie la pancia di cibo, ecco che la sua non pienezza, dovuta al prevalere di detta vacuità, vien meno. In forma di impressioni latenti restano però nel suo pensiero altri desideri, come di essere abbracciato da una donna, ecc., che, come ha detto il maestro Patanjali: «II fatto che Caitra sia innamorato di una donna, non implica che sia disamorato delle altre», ecc.

A causa di queste impressioni latenti, questa beatitudine è non piena, non è la beatitudine suprema. Questa beatitudine sua, in ogni sua forma, è una beatitudine volgare: «Pur nel possesso, egli è pauroso della separazione futura...» «Un oggetto dei sensi genera il desiderio di altri oggetti, e, così facendo, come può essere fonte di felicità?» In base a questo principio, egli non fa suo, con tutto il suo essere, questo stato di interruzione dei desideri di cose separate, e quindi, da questo punto di vista, è non pieno. Quanto a questa particella di beatitudine, ciò che la determina è però pur sempre il pensiero del proprio sé, e, in questo senso appunto è stato detto dal venerabile Narayana: «Io m'inchino a quel Dio, oceano di beatitudine, di cui tutte le beatitudini che son nell'universo son nulla più che le gocce».

Taluni così davanti ad un buon cibo, dolce, ecc., non si comportano da ingordi, ma riposando nel soggetto conoscente, pensano «questo è così», dando quindi, nel loro pensiero, più peso alla parte che concerne il soggetto conoscente. Di costoro si dice giustamente che «gustano». Non solo. Quando, superato completamente ogni movimento estraneo, davanti ai vari sentimenti estetici come l'erotico, ecc., descritti in un dramma o poema, noi proviamo un godimento che, eliminato ogni possibile ostacolo, come desiderio di guadagno, ecc., è diverso dal godimento proveniente dagli oggetti dei sensi, allora, proprio perché privo di ostacoli, questo godimento prende il nome d gustazione, delibazione, lisi, percezione estetica, riposo nelli soggettività. Tale la ragione per cui si parla dell'esser dotati di cuore.

Questa espressione si deve sia al cuore, che, caratterizzato di pensiero, in essa predomina, sia al fatto che la parte luce, riposata nel conoscibile, pur sussistendo, è come dimenticata. I sentimenti così goduti, che diventano, cioè, oggetto di tale gustazione, si trasformano nei nove rasa sentimenti estetici. ...

Il pensiero, tutto denso di gustazione del nostro proprio sé, nella sua libertà, nella sua realtà non metaforica, come inseparato dalla natura della coscienza, questo e non altro è perciò la suprema beatitudine, chiamata lisi, gustazione... Nel gusto di una cosa dolce c'è però lo schermo del contatto con un oggetto esteriore. In una poesia, in un dramma, ecc., questo schermo è sì assente, ma permane pur sempre un certo contatto coll'impressione latente di questo schermo. Anche in tali esperienze però coloro il cui cuore è ben attento a far sparire questo schermo così insorgente, ottengono la beatitudine suprema, che, com'è stato detto (Vbh, 72): «In virtù della manifestazione della beatitudine, che erompe da un cibo, da una bevanda», ecc.“.

(cfr. Antonio Sbisà, L’ebbrezza amorosa, Edizioni Mediterranee; corsi online ErbaSacra: Formazione affettiva e sessuale, Crescita personale)

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Antonio Sbisà

Ricercatore spirituale e docente universitario di scienze della formazione

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